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Alcune precisazioni dopo la puntata di Report del 15 maggio

di Stefano Vatti
italian patent attorney, italian and european trademark attorney, partner at Fumero s.r.l.

Convinto della serietà della trasmissione e della professionalità dei suoi giornalisti, ho seguito speranzoso la puntata di Report relativa alla proprietà intellettuale. Confidavo infatti di trovare spunti interessanti anche per noi professionisti del settore.

Invece, ho dovuto constatare notevole pressappochismo, e tante imprecisioni, che mi spingono a riportare mie riflessioni di chiarimento per chi l’avesse ascoltata.

  • nel corso della trasmissione si è fatto riferimento ai marchi per l’accesso al “patent box” in modo che può apparire fuorviante. Le linee guida OCSE in materia di defiscalizzazione degli asset di proprietà industriale espressamente richiedono che i marchi non siano considerati. Salvo improbabili deroghe è probabile che anche in Italia – a breve – il patent box non riguardi piú questo istituto. Inoltre, la detassazione si identifica con un credito di imposta: il titolare, per fruire dei vantaggi, deve operare nel Paese. A differenza di quanto si è potuto comprendere dal montaggio del servizio, è pertanto un’opportunità fiscale per la società che opera (e paga tasse) in Italia. Non è prevedibile uno sversamento di maggiori utili verso altri lidi (analogamente accade negli altri Paesi in cui vige questo sistema di defiscalizzazione).
  • a differenza di quanto affermava un esaminatore europeo (che non si è fatto in alcun modo identificare), i costi di ottenimento di un brevetto europeo possono essere nettamente inferiori a 50.000 euro. La domanda sorge spontanea: per i costi di causa a chi si chiede? ad un aiutante di cancelleria o ad un avvocato? Ancora non ho compreso la scelta editoriale, onestamente.
  • nel corso della trasmissione, la dottoressa Gabanelli indica – con uno sgargiante cartello alle sue spalle – i costi di un brevetto italiano. Visto che le tasse per il deposito si attestano intorno a poche centinaia d’euro, forse sarebbe opportuno spiegare come si arriva a quella cifra.
  • durante la trasmissione viene data voce ad un fisico che afferma che i brevetti non servono all’innovazione: prova ne è che il CERN non deposita brevetti nè rivendica diritti d’autore. Un veloce accesso alla banca dati europea informa che ci sono almeno 140 titoli brevettuali in capo al CERN. Sono altresì certo che un articolo – o un libro – che copi e incolli tratti di documenti ufficiali del CERN senza autorizzazione, porterebbe come reazione – entro un mese – ad una garbata lettera di un avvocato ginevrino che mi chiede di ritirare il libro dagli scaffali. A pieno diritto, peraltro.
  • le testimonianze degli inventori meriterebbero un capitolo intero. In un caso, l’inventore ha dovuto abbandonare il progetto perchè la commercializzazione avrebbe avuto costi insostenibili: ciò dimostra solo che il brevetto è un’arma bianca a disposizione del titolare, non è uno strumento che “automaticamente” garantisce profitto. Il secondo caso è di un inventore che contesta la lentezza dell’esame europeo rispetto a quelli in Cina ed USA: è un caso che può accadere, come può accadere il contrario. Dipende dal ritardo degli Uffici Brevetti, tipicamente per la specifica categoria di invenzione. Il terzo caso prevede situazioni tecnicamente irrealizzabili (furto di idee a deposito avvenuto da parte di funzionari degli Uffici Brevetti a favore di altre ditte), pertanto non merita eccessiva attenzione: ricordo solo che fa fede la data del deposito, e quindi per forza di cose il testo capiterebbe nelle mani di malintenzionati dopo tale data.
  • la dottoressa Gabanelli ricorda infine che spesso in corso di causa le multinazionali costringono le PMI a soccombere. Il contenzioso brevettuale si basa su prove e date, e non su congetture. La multinazionale che fa causa al piccolo imprenditore e vince in modo sordido è un’evenienza relativamente rara. Piuttosto, lo sviluppo tecnologico è ormai talmente avanzato che le invenzioni sono spesso di perfezionamento, e conseguentemente in fase di giudizio si riducono gli effettivi ambiti di protezione del brevetto. Certamente le multinazionali hanno maggior forza nell’attività di ricerca di tecnica nota e maggior resistenza a sostenere spese legali nel corso del contenzioso.
  • un ricercatore contesta la pratica brevettuale, facendo presente che il testo “rimane segreto per lunghissimo tempo”. Il brevetto è segreto per diciotto mesi dalla data di deposito, non un giorno di più. Passato quel tempo i ricercatori possono trovare soluzioni alternative a quella brevettata per risolvere il medesimo problema tecnico.
  • in merito ai farmaci, la dottoressa Gabanelli ha un’interpretazione imprecisa dell’”evergreen”, affermando che la mera riproposizione della formula lievemente modificata sia sufficiente per una nuova valida domanda di brevetto. Si tratta di una leggenda metropolitana: le modifiche apportate devono comunque possedere effetti migliorativi perchè si possa definire “innovativa” (per capirci, il cambio di un eccipiente, o di un composto sotto tutti gli aspetti equivalente a quello precedentemente protetto, non è sufficiente). Anche l’uso della molecola in un settore nuovo rispetto a quello originariamente usato deve essere imprevedibile, altrimenti la domanda è intrinsecamente nulla.

Queste sono le imprecisioni più evidenti. Ho trovato anche poco corretto che lo spazio concesso ad un consulente abilitato sia limitato ai rischi correlati con la nuova istituzione del brevetto unitario. Sono certo grato alla dottoressa Gabanelli di avere evidenziato la problematica per le PMI, ma forse avrebbe potuto offrire qualche informazione piú precisa in materia, dandogli più spazio.

Peccato, un’ottima occasione perduta.